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Piatti delle festività in Sicilia

Grazie alla posizione geografica, che ne fa la regina del Mediterraneo, la Sicilia è l’isola italiana con la tradizione culinaria più complessa. Tale peculiarità, è dovuta ad un passato fatto di molteplici dominazioni, che hanno portato modifiche continue nel settore agroalimentare. I greci, ad esempio, hanno implementato le tecniche di coltivazione dei vigneti, gli aragonesi, invece, hanno importato peperoni, pomodori, patate e cacao.

In questa terra dai colori vivaci e brillanti, dunque, i banchetti delle feste sono meltin’ pot di sapori, che connettono culture e tradizioni diametralmente opposte. Non stupisce che le pietanze a base di pesce si mischino con gli ortaggi, le portate di carne si fondano con le erbette, le paste artigianali si tuffino in sughi opulenti ed audaci. Considerato tale background, nei piatti delle feste è possibile individuare:

  • Influenza greca, con portate a base di ricotta, olive e pasta di mandorle
  • Influenza romano/ebraica, a cui si devono la rosticceria, la frittola ed i buccellati
  • Influenza bizantina, nei manicaretti speziati o aromatizzati alla cannella
  • Influenza araba, alla quale si deve la paternità delle famose granite
  • Influenza normanna, che introduce nei menu la selvaggina
  • Influenza spagnola, con produzione e lavorazione della cioccolata
  • Influenza francese, che ha ispirato le sarde a beccafico

Piatti tipici siciliani per le festività in Sicilia

In Sicilia, il Natale è uno dei momenti di sfogo dell’estro culinario e le pietanze presentano sfumature geografiche ben distinguibili. La sera del 24 dicembre, le tavole vengono imbandite con il “rollé” di carne, che nel catanese assume un nome emblematico: falsomagro. Si tratta infatti di un rotolo di carne rossa battuta, farcita con salumi, uova, cipollotti e salsiccia, a volte anche mollica, olio d’oliva e prezzemolo. Il calorico manicaretto, nel trapanese e nel palermitano si accompagna ai “cavuliceddi“, erbetta spontanea che viene lessata e condita con olio, sale, pepe e spicchi d’aglio.

Il pasto viene poi completato da “alivi cunzati” (olive ripiene), scalogno crudo e cardi fritti. Il giorno successivo, la prima portata prevede cannelloni o pasta “‘ncaciàta”, cioè ricca di cacio, impreziosita da ragù, melanzane fritte e, nell’agrigentino, anche da cavolfiore. Il secondo è invece rappresentato da una fetta di carne panata, cotta alla brace e servita con insalata di finocchi, olive nere e spicchi d’arancio. Il pasto si conclude con un variegato assortimento di dolci, dove abbondano cassate e cassatine, cannoli, buccellati, cassatelle e “sfince”. La cena è anch’essa sostanziosa, prevede salsiccia, baccalà fritto, cotenna al sugo, pomodori secchi ripieni e crispelle “canciòva” (bocconcini farciti di acciughe e ricotta). Tuttavia, dal momento che i cibi vengono preparati in quantità abbondanti, ciò che rimane viene riciclato e consumato a Santo Stefano.

Il cattolicesimo è ben radicato nel territorio siculo e non stupisce che il banchetto pasquale sia pieno di simboli marcatamente cristiani. Le tavole abbondano di antipasti goduriosi, dalle uova sode alle panelline fritte, dai tocchetti di formaggio ai taglieri di salumi, ma ciò che più si attende è la pasta. Secondo la tradizione, nel palermitano si preparano anelletti al forno, mentre in altre aree si predilige la lasagna oppure il “Taganu d’Aragona“, a base di mezze maniche.

Segue quindi l’agnello, arrostito e condito con un il cosiddetto “ammogghiu“, un trito di pomodoro, aglio, sale, pepe ed olio. Dato che le fibre sono importanti, al siculo verace non mancano mai i carciofi, principalmente bolliti ed aromatizzati con una miscela di olio e succo di limone, oppure impregnati d’olio d’oliva ed arrostiti lentamente sulla brace. Anche in questo caso, il pasto si chiude con la cassata, ma in contemporanea vengono proposti il “pupu cu l’ovu” (grosso tarallo che incastona uno o più uova sode, decorato con zuccherini colorati), l’agnello di pasta di mandorle e la frutta di Martorana, inventata da un gruppo di suore di clausura.

Per cena ci si mantiene leggeri con le classiche sarde a beccafico, un piatto nato per scimmiottare la raffinata cucina francese e trasformatosi poi in pietra miliare della gastronomia. In linea generale, comunque, i menu rispecchiano e valorizzano le produzioni locali. A Favara, ad esempio, gli agnelli dolci si preparano con i pistacchi di Bronte. A Modica, invece, le pecore di marzapane sono farcite con crema al cacao.

Sebbene i banchetti natalizi e pasquali siano considerati i più sfarzosi, la Trinacria è famosa per numerose pietanze celebrative che si cucinano tutto l’anno. Il giorno dell’Immacolata, ad esempio, la tradizione vuole che si mangi lo sfincione, sia nella forma classica che in quella “bianca”. Il primo è simile alla pizza alta, ma è molto più aromatico, poiché contiene cubetti di formaggio e sarde salate. Il secondo, invece, è particolarmente fragrante, essendo insaporito da primosale, cacio e ricotta. Il 13 dicembre, giornata dedicata alla commemorazione di Santa Lucia, non si mangiano nè pane nè pasta, ma solo arancine, timballi di riso e grano bollito, detto “cuccìa”. Quest’ultimo viene addizionato alla crema pasticcera, alla melassa oppure al vino cotto e decorato con canditi e scaglie di cioccolata. Infine, la notte di capodanno è imperativo servire lo stoccafisso, l’Epifania si festeggia con i “maccarruna” (maccheroni) mentre Ognissanti è un tripudio di “mustazzòla” (mostaccioli).